16 gen

IL VENERDÌ DI CIVILTÀ

Storie By

per Valeria Solesin

Come ogni venerdì sera, Civiltà si preparava ad uscire. Nemmeno nei giorni precedenti si era negata qualche piacere serale, ma quella del venerdì restava la sua serata preferita. Diceva di odiare la domenica perché giorno di festa oscurato dalla malinconia metafisica; mentre del sabato, pur tanto amato dai suoi amici, apprezzava la frenesia mondana, ma non le piaceva che fosse un giorno dedicato per intero al piacere, quasi a voler rinnegare la fatica dei giorni che lo avevano preceduto.
Meglio il venerdì, giorno che annunciava sì la festa ma che non si era ancora diviso nella rigida partizione di attività e riposo, realtà e fantasia, e la cui sera era dunque a maggior ragione carica di piacere giacché non rinnegava il tempo dedicato agli impegni bensì li “trasfigurava”.
Usando anche termini un po’ aulici come il verbo “trasfigurare”, dovuti alla sua buona formazione borghese, così soleva dire Civiltà, per esempio quando voleva contestare un’amica che cercava al contrario di sostenere il primato del sabato sera.
Civiltà era ancora giovane e tuttavia cresciuta al punto da potersi permettere in modo autonomo momenti e serate di divertimento, di piacere conviviale, di libero nutrimento culturale, appagamento sensuale, alimento estetico… D’altronde sarebbe stato impossibile proibirglielo. L’energia e la bellezza, entrambe esuberanti, le andavano strette come solo alla gioventù è consentito, e di cui le giovani donne dimostrano di conoscere bene le misure, per esempio quando si vestono con capi di taglie inferiori a quelle che darebbero loro agio nei movimenti in modo da valorizzare le forme della loro vitalità.
Per tornare al tema del venerdì, non si sbaglia dunque dicendo che quelle erano le ore serali che più e meglio interpretavano le attese della giovane. Civiltà, come a sottolineare un orgoglio persino del suo stato fisico, scioglieva allora, dopo un bagno prolungato nell’ozio, i lunghi capelli che per interi giorni aveva tenuto raccolti sul lavoro in forme composte sebbene vezzose. Poi, mentre lasciava asciugare la lunga capigliatura, si dedicava al trucco. Abile nel perfezionare la sua immagine, non esagerava però nel maquillage. Anche qui rispettava la filosofia del venerdì, che chiedeva di non separare mai drasticamente la realtà feriale della giornata lavorativa dalla fantasia per così dire festivale della sera: il ritratto doveva rimanere percepibile sotto la riscrittura discreta del trucco.
Per quanto sia un tema di grande interesse, è tuttavia impossibile e risulterebbe indelicato descrivere le modalità, i gesti e le tecniche impiegate da Civiltà nel truccarsi. E poi, se io provassi qui a disvelarli, incapperei nel più grave degli errori: ossia, la presunzione di rivelare la verità come ciò che sta sotto l’apparenza, che come è noto è un pericoloso modo di pensare contro cui Civiltà e tutti i suoi simili si oppongono da sempre…
Ho scritto “da sempre”? Ho sbagliato. Civiltà non pretendeva di parlare in nome di un tempo eterno.
Non le mancava certo il senso del sacro, ma la gioventù la spingeva a dichiarare che i suoi principi erano nondimeno da attribuire al suo tempo. Con un po’ di civetteria non diceva mai qual era esattamente il giorno del suo compleanno, approfittando di tale incertezza per organizzare più feste; mentre per quanto riguarda l’età, scherzando ma non del tutto affermava di avere circa duecentocinquant’anni sulle spalle: sulle sue bellissime spalle, che in alcune occasioni speciali aveva mostrato con decolletés vertiginosi.
Per lei scoprirsi non significava però denudarsi. Come mi corre il dovere di ribadire, Civiltà sapeva che la sua bellezza posava appunto sull’immagine. E “l’immagine non può per logica essere nuda!” sottolineava, in toni appassionati, quando c’era bisogno di chiarimenti con taluni amici che talvolta, trovandola forse un po’ appariscente, la criticavano temendo che stesse diventando appunto una “Civiltà dell’immagine”.
Come si capisce dai miei brevi e affettuosi cenni, Civiltà era una giovane tanto bella quanto colta, e
proprio per questo, come hanno notato alcuni scienziati che hanno avuto il privilegio di conoscerla di persona, identificava verità e immagine, misteri della vita e logiche della bellezza. Sapendo però anche che tale identificazione è il frutto più difficile da cogliere, Civiltà riconosceva i suoi limiti, che diceva essere dettati dalla fragilità e dalla superbia del pensiero che sappiamo albergare insieme sotto l’umana corteccia spirituale. Ma chi non vorrebbe averne di limiti come i suoi? aggiungo io, lasciandomi prendere da un moto di partigianeria. E’ infatti da considerare un limite la verità intesa come “libertà, uguaglianza e fraternità”? tanto per citare una formula coniata tempo addietro da suoi amici. No di certo, e rivendicando i propri limiti come elementi fondativi del suo carattere, Civiltà si arrabbiava ogni volta che altri usurpavano il suo nome riempiendolo di caratteri affatto diversi. Lei ammetteva la sua lontana genealogia classica, latina, ma aggiungeva che anche i figli con lo stesso cognome degli antenati se ne distaccano nondimeno per un ritratto loro proprio. Quindi, spiegava, queste altre realtà usurpatrici del suo nome erano invitate a chiamarsi in altro modo, per esempio “Cultura” o “Fede”, “Tradizione”, “Clan” o persino “Umanità”: scegliessero loro liberamente un nome scorrendo apposito lemmario, ma per favore lasciassero in pace lei, Civiltà!
Nonostante talune insinuazioni diffuse ad arte soprattutto da pretendenti respinti e colleghe meno belle, ciò non significa che Civiltà si sentisse superiore. Era anzi lei la prima a stigmatizzare ogni pretesa di “superiorità”. Ma sul fatto di essere ciò nonostante “migliore” nutriva pochi dubbi. E a riprova osservava che in lei potevano convivere ogni Cultura e Tradizione, ogni Fede o Clan o Umanità, mentre non si poteva dire altrettanto nel rovesciamento dei fattori. Civiltà si considerava insomma unica esattamente perché in grado con la sua verità libera di rispettare le altre unicità.
E’ a questo punto facile presumere che anche quel venerdì sera da cui siamo partiti Civiltà stesse pensando cose simili a quelle che qui mi sono permesso di annotare. Secondo la mia fantasia, la immagino che, fattasi bella, si stira un’ultima volta la gonna davanti allo specchio dell’ingresso e scende poi le scale di casa, magari fischiettando come spesso ci accade quando stiamo per uscire a divertirci.
Di regola, il venerdì sera prevedeva dapprima l’incontro con le amiche al bistrot vicino casa per un aperitivo leggermente alcolico, durante il quale il gruppetto si scambiava informazioni sulle ultime cose piacevoli loro accadute e altrettanto sulle delusioni avute. Così, confrontavano i pareri sul film appassionante appena visto, davano i voti al ribasso al romanzo letto compulsivamente prima di addormentarsi, stroncavano il solito cretino politico di turno, e parimenti commentavano l’avvenenza o meno del tale e talaltro giovanotto conosciuto da poco… Civiltà e le amiche sapevano che il loro mondo è costruito da speranze e delusioni su tutti i fronti: intellettuale, amoroso, professionale, politico, spirituale… Cosciente che solo le speranze con il dito indice rivolto perentorio verso l’alto ultraterreno non corrono mai il rischio di andare deluse, Civiltà diffidava di tutte quelle persone che ripongono le loro attese su indiscutibili dimensioni ultraterrene: sapeva dei pericoli che vengono da chi non accetta alcuna delusione perché si è affidato a sistemi di speranza che sfuggono per principio a ogni verifica, a ogni critica.
Armata di speranze che a questo punto non sarà improprio attribuirle con l’aggettivo di “civili”, Civiltà aveva quindi curato minuziosamente la sua immagine, essendo il venerdì sera il momento per eccellenza in cui speranza, etica e bellezza coincidevano. Le sue amiche al bistrot mostrarono anch’esse di essersi preparate a dovere a quel concorso di belle speranze, tanto che tra di loro non tardò ad affiorare qualche segnale di competizione non appena vennero raggiunte ai tavolini dai giovani che se ne erano aggiudicata la compagnia.
La grande città, forse la più bella in cui Civiltà avesse mai vissuto e di sicuro quella in cui si sentiva più a casa propria, era a completa disposizione. Consumato l’aperitivo, i giovani si spostarono quindi nella trattoria preferita del quartiere, e dopo cena salirono su un affollatissimo treno della metropolitana per raggiungere il locale dove li attendeva il momento più atteso: la musica.
In quegli appuntamenti col divertimento, quando la vita si scioglie in spettacolo e l’esperienza si abbandona all’immaginario, Civiltà sentiva la sua verità parlare leggera sulla superficie dei sensi. E mentre ballava con i suoi compagni al ritmo di una musica estatica, capì perfettamente perché per i nemici dell’immagine e del bello fosse diventata proprio lei, Civiltà, il nemico da uccidere.

ARTE & COMUNITÀ… gennaio 16, 2016 art child-6 12604663_1078945972161583_4557391692194358963_o ROBERT INDIANA gennaio 18, 2016